Livorno – Se n’è andato Comunardo Niccolai, calciatore figlio di calciatore, un mito dell’infanzia di molti, compresa la mia. Lo sentivo livornese in quanto a Livorno lui era legato, essendo figlio di Lorenzo Niccolai, chiamato Braciola dai ribollenti e fantasiosi tifosi del Livorno, di cui aveva difeso la porta per diversi anni. I tifosi lo avevano rinominato così perché non aveva paura a buttarsi a kamikaze ed a “sbraciolarsi” su quei campi senza erba, pieni di sassi, che erano i campi di calcio degli anni Venti e Trenta del Novecento. Un anarchico antifascista, il padre, che lo aveva battezzato Comunardo, quando il 15 dicembre era nato ad Uzzano, in provincia di Pistoia, in onore della Comune di Parigi.
Comunardo del suo nome andava fiero. E un po’ anarchico, in campo, lo era anche lui. Non perché si dedicasse al proselitismo politico o facesse cosa gli pare. Ma perché, mutuando dal padre l’incoscienza dell’azione, nel tentativo di salvare l’insalvabile, ogni tanto girava nella propria porta dei palloni che, probabilmente, in porta sarebbero finiti lo stesso.
Oggi, 2 luglio 2024, Comunardo ha lasciato la vita terrena. Magari, adesso, sarà ad abbracciare Gigi Riva, suo amico e compagno di squadra nel Cagliari campione d’Italia della stagione 1969-70. O forse sarà ad abbracciare Manlio Scopigno, suo allenatore al Cagliari, che vedendolo in campo ai Mondiali del ‘70 in Messico, secondo la leggenda, ebbe a dire: “Mi sarei aspettato di tutto dalla vita, ma non di vedere Niccolai in mondovisione”.
In verità, assieme a Roberto Rosato, Niccolai è stato uno dei migliori stopper italiani del periodo a cavallo tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi degli anni Settanta. Lo chiamavano il “re degli autogol” ma non era vero. Cinque autoreti in 225 partite non sono assolutamente un numero abnorme. La verità è che era un signor difensore e questo va detto con forza, tanto più oggi.
Ciao Comunardo, livornese dentro. Che la terra ti sia lieve.
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