Livorno – Supereremo anche questa. Abbiamo giocato su campi senza erba di squadre senza storia. Quattro fallimenti e un'estromissione dai campionati professionistici per debiti. Siamo stati in alto, ma anche in basso, molto in basso, poi siamo tornati in alto. Abbiamo giocato in Coppa Uefa e in Eccellenza regionale. La maglia amaranto è stata dappertutto: all'Olimpico di Barcellona come al campo di Brozzi, schierata davanti alla Juventus o all'Inter come al Tuttocalzatura e allo Staggia Senese. Per due volte siamo stati vicecampioni d'Italia, abbiamo vinto un titolo del Centro-sud, diversi scudetti giovanili, il nostro nome è tra le “magnifiche 18”, ossia tra le squadre che hanno giocato il primo campionato a girone unico di Serie A, e siamo l'unica squadra toscana ad essere stata ai nastri di partenza di quello storico torneo. Siamo anche l'unica squadra ad aver battuto il Grande Torino a Torino. Può bastare?
Quanto stiamo vivendo oggi, che pure fa paura, non ammazzerà mai il nostro orgoglio, la nostra storia, la nostra identità, il carattere di una squadra, il Livorno, che rappresenta una città ribelle e sanguigna, Livorno, che sa stare a testa alta anche quando il mondo gli crolla attorno. Una città che ha dentro il segno della sofferenza della sua origine plebea, irriverente ma anche geniale, che ha dato i natali a Modigliani, Mascagni, Fattori, Caproni, ai due Ciampi, il poeta cantautore e il presidente degli italiani, oggi in crisi perché è in crisi tutto un mondo, dalla cantieristica alle partecipazioni statali, dalle attività portuali alla siderurgia, in attesa che un nuovo mondo definitivamente sorga e si consolidi.
Livorno ama la sua bandiera amaranto. Maglia amaranto, cazzotti e pianto. E' la maglia di Magnozzi e Picchi, ma anche di Protti, Lucarelli, Galante, Amelia, Morrone, Balleri, di campioni come Allegri e Chiellini così come di tanti onesti operai del pallone, che però l'hanno amata, e la amano, come la amano i livornesi, stirpe corsara, eredi dei Quattro mori, che in gran numero si identificano in essa fino al midollo.
Ieri sera, all'imbarco del porto di Livorno, abbiamo avuto l'ennesima prova del grande amore dei livornesi per la propria squadra, per la propria identità, nobile e proletaria, che riassume il vigore e sintetizza il valore di un'appartenenza che non è solo sportiva ma uno stato dell'anima.
Settanta, ottanta, forse cento tifosi si sono dati appuntamento alla stazione marittima per accompagnare i moschettieri di Dal Canto al traghetto che li ha portati in Sardegna, dove domani pomeriggio, domenica 18 ottobre, giocheranno contro l'Olbia degli ex Emerson e Giandonato.
Siamo sicuri che ai calciatori amaranto sarà venuta la pelle d'oca nel vedere questi ragazzi cantare, urlare slogan, accendere fumogeni ed incitarli. E siamo sicuri che loro, gli amaranto, ad Olbia daranno tutto quello che possono, ed anche di più, fornendo sul campo la risposta che in questo momento è necessario dare.
Il momento è di quelli delicati. E grottesco. Tanto delicato e grottesco che, se la situazione non fosse potenzialmente drammatica, farebbe perfino ridere, anzi sorridere, tanto è inutile ed ingarbugliata. A Livorno ci sono tutte le condizioni per far bene. Eppure, incredibilmente, il club rischia, o forse ha solo rischiato, il quinto fallimento.
Il calcio è un mondo strano, anomalo, anche se affascinante. E' un'industria che coniuga la passione all'economia, il sentimento all'investimento. La tradizione sportiva appartiene ai tifosi, l'attività economica agli imprenditori. Fare calcio significa tenere in equilibrio, da parte di società e tifosi, questi due aspetti a prima vista inconciliabili tra loro.
Il momento, dicevamo, è di quelli delicati, ma si avverte che la svolta potrebbe essere vicina. Quale essa sarà lo capiremo lunedì prossimo, 19 ottobre, giorno che si preannuncia come uno spartiacque nel futuro del più che centenario Livorno.
Non viviamo sul pianeta Papalla e ben sappiamo che il calcio non è più quello dei presidenti “ricchi e scemi” che si riducono sul lastrico per tenere a galla la squadra del cuore. Non lo è più da molto tempo. Occorre saper fare calcio. Occorre saper coniugare in modo intelligente, e produttivo, la passione con l'economia e se possibile con un'economia in grado di guardare al futuro.
Solo l'infatuazione nasce a prima vista, non il vero "amore". Non basta la passione, non basta la proiezione, ma va costruito un rapporto che deve basarsi sull'integrazione e sul rispetto di sensibilità e bisogni diversi. Un concetto, questo, che vale anche per le circostanze e le relazioni extra-personali.
A uno che viene da fuori, che non ha legami con la città di Livorno, non possiamo chiedere di amare la maglia amaranto e cosa essa rappresenta, almeno non subito. Da uno che si avvicina per investire nel Livorno non è possibile pretendere un amore improvviso e sviscerato. Anche nel calcio prima ci si deve conoscere, poi acquisire fiducia, quindi fare le scelte definitive, fermo restando che se un imprenditore non è attratto dal pallone, non si avvicina neanche a una società di calcio, Livorno compresa, perché se non c'è passione, se non c'è attrazione, da un certo mondo si gira al largo.
Oggi chi si avvicina al calcio lo fa in genere con spirito ed obiettivi diversi dal passato. Non è più l'epoca dei patron stile Anconetani o Rozzi, Gaucci o Cecchi Gori, ma nemmeno come Berlusconi e Moratti e se permettete, con i suoi pregi ed i suoi difetti, nemmeno come Spinelli. Oggi chi si avvicina a una società professionistica non può non avere un progetto che va oltre il calcio, magari un progetto che prevede l'avvio, attorno alla squadra, di attività economiche capaci di far rientrare l'investimento effettuato e di far sì che tali attività siano di supporto alla società ed utili alla città che ospita questi investimenti.
Oggigiorno, quando si tracciano le linee di sviluppo o di rilancio di un club, non possono non esserci degli incastri con attività diverse dal calcio. Si tratta chiaramente di un percorso che necessita di basi solide, altrimenti va a finire come in quelle coppie dove, dopo l'ardore e la passione iniziale, tempo due mesi ci si tirano le scarpe e ci si lanciano le accuse più pesanti. Di conseguenza, quando ci si trova in situazioni come quella del Livorno, bisogna essere consci della complessità del calcio professionistico, sport e spettacolo al tempo stesso, straordinario veicolo commerciale e pubblicitario.
Quello che serve al Livorno calcio, oggi, è una società costituita da persone disposte ad investire perché il rilancio di una squadra, ormai, non può non rientrare in un progetto imprenditoriale più ampio in cui il football diventa complementare ad altre attività.
Chi quella maglia la ama davvero, come quei cento che sono andati far sentire ai giocatori del Livorno che non sono soli, che non saranno mai soli, ne' ai vertici della Serie A ne' nei gironi infernali della Serie C, non ha bisogno di personaggi che sul momento hanno un po' di soldi da investire ma che in prospettiva, una volta finiti i soldi e svanita la passione, se ne vanno lasciando tutto e niente. Chi il vessillo amaranto lo porta dentro l'anima ha bisogno di un progetto serio, razionale, rivolto al futuro, al quale consegnare le proprie aspettative ed i propri sogni. I tempi del presidente del Borgorosso football club, ben interpretato da Sordi mezzo secolo fa, appartengono a un passato certamente romantico ma ormai passato. Un tempo che non tornerà mai più.
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