45 anni fa l'addio ad Armando Picchi. Il ricordo del figlio Leo

27.05.2016 21:13 di Luca Aprea Twitter:    vedi letture
45 anni fa l'addio ad Armando Picchi. Il ricordo del figlio Leo
© foto di Imago/Image Sport

Livorno - Sono passati esattamente 45 anni da quel triste, tristissimo, 27 maggio 1971. Quel giorno se l'Inter perse il Capitano della squadra che aveva vinto tutto in Italia, in Europa e nel Mondo, Livorno perse uno dei suoi figli più amati, non il campione, la leggenda ma semplicemente "Armandino". Nonostante la luminosa carriera e gli allori conquistati il legame tra Picchi, Livorno e il Livorno rimase sempre stretto e indissolubile tanto che lo stesso Picchi ebbe a dire «la prima volta che ho indossato la maglia del Livorno mi sono sentito nudo perché la mia pelle era amaranto». Una delle più belle dichiarazioni d'amore nei confronti della squadra labronica.

Un toccante ricordo è arrivato oggi da Milano dove, sulle pagine del sito ufficiale dell'Inter (ripreso anche da quello del Livorno Calcio) il figlio Leo, attualmente responsabile dell'ufficio stampa della società nerazzurra, ha messo nero su bianco le sue emozioni.

Le riportiamo integralmente nella loro struggente dolcezza.

27 maggio 1971, una data che vorrei ma non riesco a cancellare dalla memoria. Avevo da poco compiuto due anni e il destino mi privava per sempre di mio padre, Armando Picchi.

Per tutti è il Capitano della Grande Inter di Angelo Moratti, Helenio Herrera e Italo Allodi, una formazione leggendaria che divide la gloria nell'Olimpo del calcio italiano solo con il Grande Torino di Valentino Mazzola.

Per me, mia madre Francesca e mio fratello Gianmarco, invece, era 'solo' un embrione di marito e di padre, della cui presenza abbiamo potuto godere e gioire per un tempo troppo breve.

Oggi, a quarantacinque anni di distanza da quella data, non mi rimane di lui che un ricordo sbiadito che negli anni è diventato, ahimè, un ricordo di un ricordo: Lui, gigantesco, in piedi di fronte a me in un lungo corridoio, che lancia una palla di pezza colorata, ed io che cerco di calciargliela indietro. Anni dopo mi hanno detto che eravamo a Livorno, nella casa di mia nonna.

Quando oltre quindici anni fa ho avuto la fortuna di cominciare il mio percorso professionale all'interno dell'ufficio stampa dell'Inter, ero avido di aneddoti, racconti e curiosità. Spesso domandavo a Mario Corso, Luisito Suarez, Giacinto Facchetti o Gianfranco Bedin di spiegarmi come realmente fosse mio padre. Non quel padre celebrato dalle cronache sportive e nemmeno quello che, scomparso prematuramente, era divenuto una sorta di 'santo' agli occhi dei parenti e degli amici più stretti. In casa poi, non lo si poteva nominare che mia madre scoppiava a piangere. Anche parlarne con mio fratello è sempre stato doloroso, c'era sempre una sorta di disagio di fondo che non ti permetteva di andare oltre quel senso di mancanza, di vuoto che ha segnato per sempre le nostre vite. Perché perdere un padre a quell'età significa perdere la direzione, perdere un faro che possa guidarti nella vita e una roccia alla quale appoggiarsi nei momenti più bui.

Dai suoi compagni di squadra prima citati e che dividevano con me gli uffici della vecchia sede di via Durini, o da quelli che erano tra i suoi amici più cari come Tarcisio Burgnich, Aristide Guarneri e Sandro Mazzola, ho sempre cercato di sapere come fosse al di fuori della 'routine' degli allenamenti e delle partite.

Negli anni, grazie ai ricordi di sua sorella maggiore Mity, che mi ha soprattutto dipinto Armandino, bimbo, ragazzo, adolescente, chierichetto e aspirante calciatore all'oratorio, e dei suoi compagni di squadra, ho creato un quadro di mio padre che davvero va oltre la letteratura sportiva che ne ha narrato le gesta di Capitano e condottiero impavido su ogni campo di calcio. Ne ho ricavato un'immagine più umana, spirituale e in un certo senso più avvicinabile, un'immagine che mi facesse superare la difficoltà di qualsiasi insostenibile, soverchiante paragone.

Il destino ha scelto davvero una data incredibile per portarselo via a soli trentacinque anni, il 27 maggio, appunto, il giorno della sua più alta parabola sportiva, il giorno nel quale la sua Inter, solo sei e sette anni prima aveva conquistato le Coppe dei Campioni di Vienna e Milano e lui aveva levato al cielo e proteso verso tutti i tifosi nerazzurri quell'argenteo meraviglioso trofeo. E oggi, come ogni 27 maggio da quindici anni a questa parte, farò finta di niente ed entrando nella sala delle Coppe, senza essere visto da nessuno, le sfiorerò carezzandole con un tocco lieve delle dita, e chiudendo gli occhi per un istante, sognerò di stringere le mani di mio padre.